Previdenza sociale: differenze tra le versioni

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{{L|diritto|arg2=lavoro|aprile 2014}}La '''previdenza sociale''' è un ramo della [[stato sociale|legislazione sociale]] che ha come fine la tutela del [[lavoratore]] dai rischi conseguenti alla menomazione o alla perdita della sua capacità lavorativa a causa di eventi predeterminati.
 
Sorta storicamente in relazione alle condizioni di bisogno dei [[lavoro subordinato|lavoratori subordinati]], la tutela previdenziale è stata poi gradualmente estesa a tutti i produttori di [[reddito]] da lavoro. In [[Italia]], la previdenza sociale ha assunto un ruolo centrale dell'[[economia]] nazionale e nella politica di redistribuzione dei redditi, più che negli altri paesi europei e industrializzati, in quanto la [[spesa pubblica]] dello [[Stato]] in rapporto al [[Prodotto interno lordo]] (PIL) è tra le più alte. Ciò incide anche nelle [[politica fiscale|politiche fiscali]], sociali e dello [[sviluppo economico|sviluppo]] in quanto per finanziare con le [[imposte]] tale [[servizio pubblico]] si è costretti a distoglierle da altri importanti settori o aree economiche-industriali.
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Già a partire dagli ultimi anni dell'Ottocento in alcuni paesi (in particolare in [[Danimarca]] e in [[Nuova Zelanda]]) venne adottato un nuovo criterio rispetto a quello occupazionale e contributivo proprio delle prime forme di welfare, il quale avrebbe trovato una più estesa applicazione all'inizio del nuovo secolo.
 
La stagione di riforme apertasi a fine secolo trovò un punto di approdo nella legge svedese varata poco prima dello scoppio della guerra (1913), con la quale vennero istituiti uno schema pensionistico obbligatorio per la vecchiaia e l'invalidità dall'impronta universalistica, come era stato per la Danimarca e sarebbe stato per la Gran Bretagna.<ref>{{cita|Heclo, 1974}}.</ref> Il riformismo di inizio secolo si accompagnò a una nuova stagione politica. Nel Regno Unito sotto il nuovo governo di collaborazione tra l'ala progressista del partito liberale e il nascente [[Partito Laburista (Regno Unito)|partito laburista]] si puntò alla realizzazione di alcune rilevanti riforme sociali. Si presero i primi provvedimenti per affrontare il problema della disoccupazione sino all'assicurazione obbligatoria del 1911; si mise mano a una riforma della legislazione sul lavoro; si arrivò al nuovo provvedimento di tipo universalistico relativo alle pensioni di vecchiaia. La novità era sia in questa impronta universalistica sia nel fatto che solo lo Stato finanziava il sistema pensionistico, tramite l'incremento contribuzione fiscale. Tuttavia nonostante l'alto valore simbolico, la legge ebbe una «modesta portata economica»,<ref>{{cita|Montroni, 2003|p. 379}}.</ref>, dovuta a  una serie di effettivi limiti.
 
In [[Francia]] sotto la spinta di una nuova stagione politica si presero alcuni importanti provvedimenti in campo assistenziale e previdenziale volti, a incrementare l'intervento dello Stato. Tuttavia anche qui alcune disposizioni si rivelarono limitate, in ordine all'esiguità delle pensioni erogate e ai requisiti stabiliti.
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Nonostante queste differenze tra le singole nazioni, il trend generale fu di una convergenza dei sistemi di sicurezza sociale, ovvero di un chiaro collegamento tra i principi dell'[[Assicurazioni sociali|assicurazione sociale]] bismarckiana e quelli beveridgiani dell'universalismo.
 
Non meno rilevanti furono poi, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, l'organizzazione e lo sviluppo dell'altro grande pilastro del welfare moderno: il servizio sanitario nazionale. Pioniera ne fu la Nuova Zelanda alla fine degli Trenta, alla quale si ispirarono il governo britannico e quello svedese. In entrambe le esperienze il servizio sanitario venne affidato alle strutture pubbliche, finanziato tramite il prelievo fiscale, caratterizzato da gratuità per tutti i cittadini. Nel Regno Unito e ancor più negli Stati Uniti si intraprese la strada del ricorso alla sanità e alle assicurazioni di tipo privato, con aumento numero delle persone escluse dalla tutela sanitaria.
 
=== La crisi del welfare state ===
I primi segnali di crisi emersero soprattutto nella seconda metà degli anni Settanta e nel decennio successivo, allorquando lo slancio riformistico si scontrò con i vincoli finanziari e si aprì una nuova fase di ridiscussione profonda dei criteri e delle modalità di gestione del welfare e delle stesse politiche sociali. Le diverse strade intraprese e i nuovi approcci emersi, che connoteranno anche gli anni Novanta, furono tanto condizionati dal rafforzamento delle politiche di stampo [[Neoliberismo|neoliberista]] quanto connessi alla necessità di fornire risposte adeguate alle nuove questioni aperte dalle ampie trasformazioni economiche e sociali dell'ultimo scorcio del XX secolo.
 
Le difficoltà derivate dalla crisi economica e finanziaria degli anni Settanta interruppero il processo di espansione dei sistemi di welfare, facendo emergere l'esigenza di contenerne i costi, di arginarne la crescente burocratizzazione e, in alcuni casi, le derive clientelari. Si impose così la ricerca «di un punto di equilibrio fra la qualità e la quantità delle prestazioni», nel solco di scelte che dimostrarono «come il dogma dell'intangibilità dello Stato sociale forse ormai caduto».<ref>{{cita|Conti, Silei, 2013|p. 201}}.</ref> Nel Regno Unito e ancor più negli Stati Uniti si intraprese la strada del ricorso alla sanità e alle assicurazioni di tipo privato, con aumento numero delle persone escluse dalla tutela sanitaria.
 
== La previdenza sociale in Italia ==
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Il periodo repubblicano fu un momento di forti contraddizioni per le vicende della previdenza: le spinte alla razionalizzazione e alla riforma del sistema degli enti previdenziali si scontrarono con la difficolta di giungere a una soluzione soddisfacente, nella quale il principio dell'universalismo trovasse espressione attraverso un congegno amministrativo funzionale. Le tappe attraverso cui si snodano le vicende del welfare italiano nel secondo dopoguerra sono numerose e hanno inizio con i provvedimenti d'urgenza presi dal governo tra il 1945 e il 1947, volti a porre un rimedio parziale alle forti difficoltà in cui si trovava la struttura della previdenza sociale nel periodo bellico. Tuttavia al frazionamento in cui versavano le amministrazioni degli enti previdenziali si rispose con una politica insufficiente, incapace tanto di superare i tratti occupazionali, quanto di transitare verso un sistema universalistico (al quale gli artt. 32 e 38, e prima ancora l'art. 3, della [[Costituzione della Repubblica Italiana]] da subito avevano teso).
 
Assai emblematici furono i lavori e gli esiti delle due commissioni di studio nominate dal governo in quegli stessi anni al fine di prendere in esame la situazione della previdenza nazionale e ripensarne l'assetto complessivo. Le proposte più innovative elaborate in seno a esse (in particolare alla [[commissione D'Aragona]]) non vennero accolte e si fecero scelte contrarie al principio dell'universalismo, al contempo orientate a un iperpensionismo. Fu osteggiata la proposta della "unicità del sistema di prestazioni", tesa a superare la tradizionale differenziazione "categoriale" del sistema di welfare nazionale e ad arginare quell'uso politico delle risorse previdenziali ai fini del consenso tipica del periodo fascista. La natura del contesto socioeconomico e la competizione interpartitica influirono sul welfare, sempre più orientato a privilegiare le pensioni, a sfavore di politiche sociali di altra natura.
 
Gli effetti positivi del [[Miracolo economico italiano|miracolo economico]], i programmi di riforma, l'intenso conflitto industriale e il nuovo protagonismo sindacale crearono nella seconda metà degli anni Sessanta i presupposti, tuttavia non realizzati, per una nuova stagione universalistica.